NL di Radio Itineraria: Il Buio oltre la luce - di Federika Brivio
Pubblicato il 23/10/2022


«Ma davvero vuole morire?»
«Nessuno si suicida perché vuole morire.»
«E allora perché lo fa?»
«Perché vuole fermare il dolore»

(Tiffanie DeBartolo)

Sto camminando per raggiungere un’autoscuola: devo prendere informazioni per iscrivere mio figlio al corso per conseguire la patente B. Inaspettatamente mi arriva proprio una sua chiamata. È piuttosto strano perché dovrebbe essere in classe a lezione e non potrebbe usare il cellulare. Mi affretto a rispondere con una certa preoccupazione perché se vuole parlarmi adesso deve essergli successo qualcosa di importante. 
«Mamma è terribile… Una cosa gravissima...»
«Cosa? Cosa?»
«Sono sconvolto!»
«Ti prego, dimmi!! Mi stai allarmando…» Le pulsazioni aumentano e il respiro si accorcia.

E mentre penso alle cose peggiori che possano essergli capitate, tutte intollerabili ancor prima di sapere la verità, non posso davvero nemmeno immaginare cosa stia per comunicarmi.

«Mamma ti ricordi la mia compagna Dorotea?» ( Dorotea è un nome di fantasia per preservare la sua identità)
«Sì, certo, avete condiviso ore e ore di studio e prove nell’orchestra della scuola… Cosa?… Ohohoh…»
Mi si soffoca in gola un verso, una parola, una frase, non so bene nemmeno io.
Sono disorientata, incredula, spaventata e inerme. Intuisco tutto prima ancora che finisca di raccontarmelo, ma lui va avanti lo stesso come se si dovesse liberare di un enorme peso che gli è appena caduto addosso.

«Si è tolta la vita ieri sera, lanciandosi dalla finestra. Una professoressa ci ha informati poco fa. Mamma… Io non so cosa pensare, cosa dire...»

Paralizzata nella mente e nel corpo, ascolto l’annuncio di questa tragedia di proporzioni smisurate che prende immediatamente una forma concreta ed effettiva.
No, non è uno scherzo, anzi si mostra subito in modo netto per il dramma esistenziale che rappresenta: una ragazza di diciotto anni ha voluto smettere di soffrire ponendo fine a se stessa.
Nascono come un fiume in piena domande che sembrano banali e scontate. Cosa c’è dietro a questo atto estremo? Quanto dolore si era accumulato in lei per aver avuto quel disperato coraggio nel compiere quel salto? È stato un impulso o qualcosa di maturato giorno dopo giorno, o meglio, buio dopo buio? Perché? Cosal’ha spinta a credere che non ci fosse una via d’uscita?

Con il cuore di piombo, il passo affaticato e gli occhi smarriti riprendo a camminare senza più una meta. Ormai l’orizzonte è ribaltato. Sono pervasa da un sentimento di profonda tristezza misto ad amarezza. Si poteva fare qualcosa per fermarla?

Penso ai suoi genitori, oppressi e appesi, d’ora in poi, alla loro non-vita, che li vedrà protagonisti di una crudele e intima battaglia individuale costellata da rimorsi e rimpianti, da sensi di colpa per quei segnali ignorati o sottovalutati, ma ormai inutilmente chiarissimi, da atroci tormenti, senza soluzione di continuità, per tutto quello che non hanno compreso fino in fondo di lei, per l’insopportabile vuoto tangibile con cui dovranno fare i conti, per gli abbracci e i baci interrotti per sempre e per tutte quelle domande destinate a restare sospese senza più una risposta, che acuiranno, amplificandolo, un dolore dal quale non si può guarire, ma al quale si deve sopravvivere.

L’attenzione adesso si sposta repentinamente su di me e sui miei figli. Anche per me domande a raffica. Anche loro sono così fragili? Anche loro accumulano frustrazione, insicurezza e disorientamento nati, forse, da vincoli, divieti e negazioni durante una pandemia inaspettata e senza scrupoli, come quella passata? Come fa una guerra che minaccia quotidianamente a farci credere in un futuro? Sono persi loro, senza certezze, e siamo persi noi adulti, sempre più inghiottiti dal nostro egocentrismo per voler dimostrare di essere, di avere, di andare, di saper fare sempre di più e oltre?

Il mio disagio cresce ad ogni passo in strada e i pensieri corrono in testa disordinati, mescolati, caotici.

O trascuriamo i nostri ragazzi o li soffochiamo con infinite attenzioni. Se li lasciamo troppo soli, rimettiamoci in discussione e poniamo fine alle nostre prolungate assenze, spesso non indispensabili! Ma se per timore di non dar loro abbastanza, riempiamo la loro agenda quotidiana con attività, proposte, idee, oggetti e stimoli che non lasciano spazio alla creatività, alla fantasia e alla loro individualità, dobbiamo essere consapevoli che, così facendo, li rendiamo più deboli, più insicuri, meno padroni delle loro capacità e sempre più dipendenti da qualcuno che dica loro cosa fare e cosa dire. A questo si aggiunge, poi, anche un diffuso esercizio di pressione psicologica operato in ogni campo, primo fra tutti la scuola, in cui i ragazzi sono esortati a essere estremamente competitivi gli uni con gli altri, per dimostrare il proprio valore e per vincere quei sentimenti di inadeguatezza e inferiorità che altrimenti potrebbero provare in questa società contemporanea che non ha pazienza di attendere i tempi maturi di ogni individuo, imponendo, dunque, prestazioni perfette anche in mancanza di esperienza, e che non ammette sbagli o distrazioni da parte di nessuno.

Nel mio vagare mi torna in mente un dramma teatrale oggi ancora di grandissima attualità, nonostante sia stato scritto nel 1927: Minnie La Candida di Massimo Bontempelli. Minnie, la protagonista, è convinta candidamente che il mondo sia puro e innocente, come lei, fino a quando il suo fidanzato Skagerrak, con la complicità del suo migliore amico Tirreno, non le fa credere, che i pesciolini contenuti in un acquario siano artificiali e che esistano anche dodici esseri artefatti, creati in laboratorio, simili agli uomini, ma indistinguibili da essi, che scappati, si aggirano indisturbati per la loro città. L’incubo della giovane comincia perché le diventa impossibile distinguere gli uomini dagli automi. Vede ovunque esseri privi di emotività e arriva persino a sospettare dell’autenticità del suo Skagerrat, al quale si affidava incondizionatamente. I tentativi di quest’ultimo di persuadere Minnie che si è trattato solo di uno scherzo si rivelano vani. La donna ormai dubita anche di se stessa: se gli automi non sanno di essere tali, forse anche lei non è vera. Il peso di questa scoperta diventa inaccettabile e la sua esistenza, privata così dei valori e dei principi fondamentali sui quali si è formata, si rivela troppo dolorosa e insopportabile da gestire: mette fine a questo sentimento frustrante e sofferente gettandosi dalla finestra, suicidandosi. Nell’allestimento teatrale al quale avevo preso parte ricoprendo proprio il ruolo di Minnie, alla fine degli anni ‘90, la rappresentazione si concludeva con l’intenso e emozionante brano dei Dream Theater Wait for Sleep: «Standing by the window/ Eyes upon the moon/ Hoping that the memory/ Will leave her spirit soon…»

Minnie è il primo personaggio femminile fuori dagli schemi del teatro italiano. È un essere stonato rispetto al resto del mondo perché vive la sua vita con candore e trasparenza, secondo valori umani e universali, come l’amore e il rispetto, che ormai sono dimenticati e considerati obsoleti nella sua realtà.
Dorotea come Minnie, forse non ha più trovato punti di riferimento attorno a sé.
Lo sguardo impedito da un buio sempre scuro, i pensieri aggrovigliati, il silenzio della ragione e il cuore irrimediabilmente sordo e troppo addolorato l’hanno portata via.

A noi tutti spetta la responsabilità di non considerare questo tragico fatto come un singolo episodio caratterizzato esclusivamente da un black-out mentale, ma di valutarlo più approfonditamente per capire meglio e interpretare il malessere di un’intera generazione, disabituata a comunicare realmente col prossimo il proprio stato interiore, se non in modo sintetico attraverso dispositivi digitali, che noi adulti pensiamo come forte, ma che nella realtà non dimostra di esserlo.

Dorotea, dove sarai adesso sono certa che avrai trovato finalmente la luce oltre il buio!

Federika Brivio