Tra il 2000 e il 2014 la produzione di abiti è raddoppiata: oggi l'acquisto di capi di abbigliamento è del 60% in più rispetto a 15 anni fa. Il maggior acquisto è dovuto al minor costo degli abiti, dovuto all'utilizzo del poliestere (fibra tessile che ha soppiantato il cotone) e al fatto che la produzione avviene in Cina e Bangladesh, dove la manodopera costa meno.
Questi numeri inducono a differenti riflessioni, una delle quali riguarda il destino dei vestiti usati. Non esiste, infatti, ancora una vera e propria cultura del riciclo. Negli USA solo il 15% degli abiti usati viene riciclata e riutilizzata, il resto finisce in discarica. Ma non sono solo i vestiti usati a essere buttati, anche gli scarti invenduti dell’industria della fast fashion subiscono la stessa sorte. Che fine fanno? Non lo immaginereste mai....
Ogni anno si stima che 39mila tonnellate di vestiti raggiungano il deserto di Atacama, in Cile, dove dune di scarti tessili hanno preso il posto della sabbia! Le immagini da sole sono eloquenti.
Dall'ultimo rapporto del National Institute of Standards and Technology, che si è occupato di #economiacircolare, emerge che anche i capi di abbigliamento possono essere riciclati: possono essere tagliati e rivenduti come stracci, le fibre possono essere separate e utilizzate per produrre nuovi tessuti, o essere usate per imbottire poltrone, sedie, sedili ovvero come isolanti per le abitazioni.
Purtroppo mancano le tecnologie per lo smistamento e la classificazione degli scarti tessili, ma anche una cultura del riciclo. In Europa è stato valutato che, nel 2020, il consumo di abiti ha avuto il quarto impatto più alto sull'ambiente e sui cambiamenti climatici.
Ovviamente servono le norme che saranno pronte, al più tardi, nel 2024. In attesa, ciascuno, nel proprio piccolo, può fare la differenza! Vestitevi sì, ma responsabilmente!
Buon fine settimana!